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giovedì 18 agosto 2011

"Drive the change"

A poca distanza dalla presentazione della terza, e più pesante, Manovra del 2011, l’attenzione è rivolta, come sempre accade, all’analisi spicciola e sommaria dei provvedimenti. Anche e soprattutto a quelli che ancora non hanno contenuto, ma solo un titolo. In esso è possibile scorgere nomi ed intestazioni di mirabile pregio interpretativo: si va dalla “delega fiscale richiesta al parlamento”, all’ “accorpamento dei comuni sotto una soglia di circa 1000 abitanti”, passando per l’abolizione di 36-38 province. Altri titoli, quelli seriamente corposi, sono anche i più antipatici, ma si sa il potere è anche l’onere di dire cose scomode: certo è che se lo avessero fatto per tempo, la pillola sarebbe un po’ meno amara. Il computo complessivo, allo stato attuale, ci dice 45 mld: soldi che saranno in ogni modo cavati dal buco, tali che “il cuore gronderà a qualcuno per qualche ora”, ad altri per interi semestri scolastici-universitari o per l’intera cassa integrazione. Andrà un po’ meglio, forse, a chi è fuori dal lavoro: di sangue non ne ha già più. Ma del resto ce lo chiedono i mercati, quegli stessi che negli anni ’90 furono la chimera per i risparmi degli arricchiti, che adesso sono tornati alla mercé di faccendieri, mafiosi e puttanieri. Ma quello che è stato fatto è noto, quello che si deve fare per porre rimedio un pò meno: dove andiamo, è chiaro come un libro scritto da un’analfabeta.

E proprio questa visione temporale è quella che ci deve inquietare di più. Dopo anni di promesse, di frasi dette e poi smentite, voi che avete creduto in un uomo che vi ha ingannato, cosa provate? Cosa provate accorgendovi che le tasse non sono aumentate solo il 12 agosto 2011, ma che in realtà è solo l’ultima serie di continue impennate? Cosa vi passa per la testa quando solo adesso vi accorgete che i vostri figli non sanno cosa fare non del loro futuro (cosa già di per sè imbarazzante) ma la mattina seguente, nonostante la crisi fosse solo “mera finzione” secondo alcuni? Il vero passo, oggi, è immaginare il futuro, la vera sfida, che fra l’altro siamo obbligati a raccogliere, capire come andarci in questo avvenire sempre più pallido e portarsi dietro le valigie.

Naturalmente quando si sa già dove andare, vi è il giusto e comprensibile rischio di perdersi. Quando poi non si sa proprio, è un suicidio partirsi. Ma alzi la mano chi pensa che i nostri amministratori sanno dove vogliono portarci, loro con le nostre valigie tra 5 anni, 10 anni o 20 anni. Sono troppi anni che non lo si sa, che bruciamo i risparmi dei nonni, che sputiamo su storia e tradizioni, che disonoriamo chi in altri tempi ha costruito.

Per questo io, da scemo che sono, una strada me la sono fatta: sono delle idee, magari sbagliate, fatte alla luce di un “progetto sociale”, più che di un sogno. Ragionando da politico, considero fondamentale, ad esempio, invertire il peso delle tasse tra contratti a tempo determinato ed indeterminato, perché attualmente viviamo nel paradosso di volere introdurre le leggi di mercato nel mondo del lavoro, ma di applicarle nel modo contrario alla logica: se andiamo in un ingrosso e compriamo un quintale di farina, questo al kg verrà a costare meno rispetto allo stesso kg comprato al mercato, al dettaglio. Per questo 20 anni di lavoro indeterminato devono costare meno di 20 anni di lavoro determinato e precario, rinnovato ogni 3 mesi, suddiviso tra decine di persone diverse.

Il secondo passo, poi, è quello di favorire, con contributi monetari, non molti, ma assicurati nel tempo, i nuclei familiari in cui ci siano almeno 6 persone con una età tra il più giovane ed il più anziano pari o superiore a 50 anni (o almeno 8 persone con una distanza tra più giovane e più anziano pari o superiore a 35 anni), in modo da recuperare la solidarietà interna alle famiglie, integrando nonni, figli e nipoti, zii e cugini nella causa del sostentamento, cosa che non dimentichiamoci era la forza dell’Italia negli anni ’60 e per il meridione anche negli anni ’70.

Di fondamentale importanza è l’intesa con la Chiesa (e da laico non è facile dirlo), per il recupero della grande tradizione dell’oratorio italiano, luogo in cui molti giovani venivano recuperati, famiglie avevano parte delle vivande grazie al sostegno della comunità di riferimento e si cresceva senza televisione come modello unico.

Il vero investimento sarebbe il rilancio dell’agricoltura, abbandonata dalle istituzioni, tranne che per i prodotti di alta eccellenza, quelli che per capirci sono conosciuti in tutto il mondo anche senza la necessità d’essere pubblicizzati. Bisogna ripartire dal contadino, ma non per inseguire i grandi mercati mondiali, quelli in cui il basso costo del lavoro la fa da padrone, bensì i mercati interni, quelli delle aziende familiari con un massimo di 5 dipendenti esterni al nucleo parentale. A queste applicare un basso regime fiscale continuativo se le colture praticate sono tipiche del luogo in cui insistono i terreni agricoli.

A questi interventi da realizzare legislativamente nei primi 6 mesi di un nuovo governo, e in pratica nel successivo anno, sarebbe d’obbligo far seguire i riordini di cui il nostro stato urge. Partendo dal presupposto che sia la costituzione, sia la comune logica, non dicono che tutte le istituzioni locali sono obbligatorie, espuntare quelle che non sono più attuali, contemplando comunque il novero di realtà storiche che non devono essere sbeffeggiate ma salvaguardate nel sentimento popolare. Da ciò è indubbio che bisogna partire dall’unificazione di tutti i comuni di piccola o piccolissima entità demografica e territoriale, creando un unico consiglio comunale, con i posti suddivisi in base alla popolazione di riferimento, ma con un unico sindaco, unica giunta, unica burocrazia; unificare le province in base a criteri anch’essi demografici; mantenere uno stipendio dignitoso per i parlamentari, ma eliminare per chi non lo ha ancora conseguito il vitalizio, così da esaurire nel tempo chi lo percepisce, non assegnandone di nuovo; includere negli appalti pubblici attività ed imprese che abbiano in Italia un congruo numero di dipendenti, naturalmente in misura del settore di riferimento, perché trovo sconcertante che i politici stranieri camminino con auto-blu della propria nazione, e quelli italiani con auto d’importazione; ancora riunire tutte le forze dell’ordine sotto un unico nome e comando, fatta eccezione per esercito e polizia municipale: questo permetterebbe risparmi burocratici senza le suddivisioni tra carabinieri, finanza, polizia, vigili del fuoco e corpi forestali, permettendo piani di assunzioni equilibrati e non guidati da partigianeria, stabilendo le competenze e le indagini in seno alle realtà locali, e non dall’alto; accorpare i ministeri così da permettere decretazioni, consigli dei ministri, e proposte di legge più fluide, con meno dispersione di risorse pubbliche;

La nota finale, unitamente ad una nuova disciplina degli appalti che contrasterebbe le mafie, va all’eliminazione nei comuni dove non si vota per la circoscrizione, dell’elenco dei voti per singolo candidato in riferimento al singolo seggio, metodo che, va detto chiaramente, annulla la segretezza del voto.

Questo e molto altro potrebbe essere fatto, dovrebbe essere spiegato (ahimè anche a gran parte dei politici), poiché non è sempre facile trasmettere l’idea di fondo di un progetto. Spero però di avervi fatto capire che la puzza sotto al naso non serve, come è altrettanto inutile non guardarsi negli occhi ed essere convinti che i problemi ce li hanno solo gli altri. I problemi si risolvono solo con un gruppo di persone unito, che non ha fatica e vergogna nello sporcarsi le mani, che ha idee concrete e che va sostenuto con decisione. Perché le cose non è vero che rimangono sempre uguali. Cambieranno in un modo o nell’altro. A noi tocca decidere se scendere nelle piazze con i megafoni o con i manganelli.





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