IL RAPPORTO TRA L’EUROPA ED I PAESI TERZI MEDITERRANEI
1. Le fasi iniziali e prime intese (1957-1989)
Sin dall’inizio del XIX secolo, le relazioni economiche tra
Paesi terzi mediterranei ed Europei, il <<concetto d’Europa>> è in
quel momento non ancora delineato istituzionalmente, si basano sulla necessità
di integrare una parte di essi, ed in particolare quelli del Maghreb, nell’economia
della “metropoli”, veri e propri “dominus” europei delle sorti dei paesi
controllati. Al momento della nascita della Comunità Economica Europea (CEE),
nel 1957, Marocco, Tunisia e Algeria sono, in ragione dei rapporti sostenuti, e
sostanzialmente forzati, con la Francia (in quanto sue ex colonie), i Paesi
mediterranei più prossimi alla Comunità, sul piano sia politico che,
necessariamente, economico. Scopo basilare di tali relazioni sta nella
necessità di reggere e di accrescere i legami di natura economica e politica
con i Paesi del Mediterraneo al fine di assicurare all’Europa una posizione di
primo piano in un’area di enorme importanza strategica, non solo economicamente
ma anche dal punto di vista militare. Il Trattato di Roma si colloca, quindi,
in un quadro storico ancora essenzialmente coloniale o di recente
decolonizzazione, fortemente intriso di controllo più o meno palese: in esso si
possono trovare solo i presupposti della sintonia, che solo più tardi darà vita
ad una vera e propria politica mediterranea. C’è, tuttavia, la disponibilità
degli Stati CEE ad avviare, immediatamente, negoziati con i Paesi mediterranei
al fine di concludere <<convenzioni di associazione economica>>
e ciò per un duplice obiettivo: mantenere ed intensificare le tradizionali
correnti di scambio commerciale tra la CEE e questi paesi terzi, e contribuire
all’espansione economica e sociale di questi ultimi, in quanto potenziali
partner futuri. Ciò mostra quanto forte sia stata l’attenzione comunitaria
nell’area mediterranea a mantenere discipline speciali negli scambi con alcuni
Paesi, i cosiddetti “Paesi associati”. Questa categoria venne addirittura
prevista dal Trattato di Roma proprio per consentire la continuazione del
trattamento preferenziale tra alcuni membri della Comunità e Paesi terzi mediterranei.
L’accordo di associazione presuppone una forma di cooperazione-partecipazione
più intensa di quella prevista dagli accordi tariffari e commerciali e lo scopo
è di predisporre azioni sinergiche, raggiungere fini unitari, creare organi, di
respiro istituzionale, in grado di fissare criteri validi anche per un futuro
di collaborazione via via più stringente; in altre parole, “istituzionalizzare”
la cooperazione. In questa fase, quindi, i rapporti euro-mediterranei sono basati
sulla reciprocità di diritti e di obblighi. Ma la reciprocità, nella veste
anche di corrispondenza tra dare ed avere non biunivoco, va intesa in senso
ampio: va, cioè, escluso che ogni obbligo debba ricadere in egual misura sulle
due parti, poiché le differenze tra la Comunità ed i Paesi mediterranei, sotto
il profilo dello sviluppo, erano, e sono, così marcate da consentire solo un livello
di reciprocità-partecipazione molto limitato. A partire dalla metà degli anni ‘60,
come appena detto, i paesi CEE assumono un approccio verso i Paesi mediterranei
orientato essenzialmente su patti commerciali preferenziali e di associazione,
strutturati con i singoli Paesi del bacino del Maghreb, già definiti “accordi
di prima generazione”; tuttavia i rapporti stabiliti dalla CEE con i Paesi mediterranei
fino al 1972 non possono certamente considerarsi ispirate ad una visione d’insieme.
La Comunità, infatti, si prospetta principalmente di conseguire, in misura
variabile da Paese a Paese, una certa liberalizzazione dei traffici commerciali
anche quando usa lo strumento politico della cooperazione o la formula dell’associazione.
Nel 1961 e nel 1963 vengono decisi i primi Accordi di Associazione con la
Grecia e la Turchia, che già due anni prima avevano presentato domanda di
adesione. Tali accordi mirano a creare un’unione doganale. Al di là dei contenuti
limitati, e degli annunci, questi accordi effettivamente servono a scongiurare
il pericolo che il processo di integrazione comunitaria possa condizionare
negativamente le strutture economiche dei Paesi in questione, compromettendo in
qualche modo la presenza di questi nell’Alleanza atlantica. La Comunità Europea
tenta evidentemente di consolidare e stabilizzare l’area sud-continentale
contro quello che al momento appare, ed il retaggio lo cogliamo ancora oggi,
come la <<grande paura>>, ovvero la potenziale, e paventata, espansione
sovietica nel Mediterraneo attraverso l’avvicinamento a realtà meno salde
socio-economicamente. Possono essere letti allo stesso modo anche gli Accordi
di Associazione conclusi con Malta e Cipro (1970/1972); nonostante il loro
obiettivo non sia la piena partecipazione-collaborazione, la costituzione di
un’unione doganale è intavolata allo scopo di ricoprire il difficile vuoto causato
dal venir meno dei vincoli storici delle due isole mediterranee con il Regno
Unito. Tra il 1965 e il 1973 vengono inoltre firmati Accordi associativi per il
mantenimento di peculiari vincoli con Tunisia e Marocco (1969) e accordi eterogenei,
misti commerciali e di cooperazione tecnica, con Libano (1965), accordi
politico-commerciali con Spagna ed Israele (1970), Portogallo ed Egitto (1972)
e Jugoslavia (1973). L’impianto sostanziale che accomuna questo gruppo di
accordi consta nel fatto che la Comunità si pone, nell’ambito mediterraneo, unicamente
come un blocco economico, e non come autorità politica, anche in virtù di uno
scacchiere geopolitico fortemente dualistico, perorando cause solo in campo
commerciale, almeno direttamente, e nelle altre relazioni di tipo economico ed consegnando
ad ogni Stato contraente la libera proposta politica. Tali contatti, tuttavia,
rimangono improntati sul modello instaurato durante il periodo coloniale in
quanto persiste il meccanismo di essere posti essenzialmente sull’acquisto di
materie prime e sulla vendita di prodotti del settore secondario dei paesi
Comunitari. Tuttavia, la CEE con il Marocco e la Tunisia, instaura un dialogo
differente; ottenuta l’indipendenza totale dalla Francia, nel 1956, questi due Neo
Stati Sovrani chiedono l’instaurarsi di trattative per associarsi ai sei membri
della Comunità, basando tale richiesta sull’articolo 238 del Trattato di Roma.
I negoziati, protrattisi per molti anni, si risolvono nel 1969 con degli
Accordi di Associazione sottoscritti per una durata di cinque anni. Questi
accordi, benché poggino come base giuridica sull’articolo 238 del Trattato del
1957, di fatto sono concordati commerciali ed economici che fissano un regime
preferenziale. I lunghi e problematici negoziati, antecedenti alla ratifica
degli accordi, sottolineano già la difficoltà di immaginare scelte in grado di
conciliarsi con gli interessi dei produttori agricoli comunitari; difatti malgrado
questi accordi siano denominati come “convenzioni di associazione”, questi si
limitano, in pratica, a disciplinare il sistema degli scambi. Le fondamentali
disposizioni dei suddetti accordi controllano il libero accesso nel mercato
comunitario per la quasi totalità dei prodotti industriali marocchini e
tunisini, ed il riconoscimento di un regime privilegiato per alcuni prodotti
agricoli. Il concordato stipulato con l’Egitto, invece, è un esempio di accordo
commerciale preferenziale tra i più moderni, poiché prevede, praticamente
preannunciandolo, l’instaurazione, con un termine temporaneo, di un’area di
libero scambio e la deroga dai dazi doganali per tutti i prodotti industriali e
corsie preferenziali per alcuni prodotti agricoli. Comprendendo lo spirito della
difformità con quelli non preferenziali, è essenziale menzionare il fatto che
gli Stati membri CEE sono assoggettati oltre che all’adempimento degli impegni
previsti dal trattato di Roma, anche al rispetto delle norme indicate nel General
Agreement on Tariffs and Trade (GATT), che, ai sensi dell’art. 24, assoggetta
alla realizzazione di zone di libero scambio l’autorizzazione di trattamenti
commerciali “preferenziali” e cioè di particolare favore rispetto all’impianto
generalizzato della clausola della <<nazione più favorita>>. Gli
accordi ed i patti, come quelli sopra rappresentati, rappresentano un’evoluzione
indubbia sulla strada di un rinforzamento delle relazioni economiche tra Comunità
e Paesi terzi mediterranei, ma, in egual tempo, rivelano limiti e lacune. Per
prima cosa manca una quadro d’insieme da parte della Comunità che concepisce
soluzioni diverse per ogni Paese. In secondo luogo, il frutto degli accordi è
strettamente circoscritto alle questioni commerciali. Per di più, si assiste
all’assegnazione di aiuti finanziari ed economici disorganici e sconnessi. Da
queste considerazioni si deduce come i Paesi terzi mediterranei storicamente
non siano stati pensati come parte di un’area omogenea, quella del bacino del Mediterraneo,
ma come Nazioni, seppur sovrane, isolate od a sé stanti con i quali avere singole
correlazioni bilaterali per tutelare interessi economici e politici in
precedenza assicurati, basati su relazioni economiche che, visto il rapporto di
forza sul quale erano costruiti, hanno raffigurato per l’Europa e la Comunità un
mercato tutelato, da cui prendere materie prime per poi esportarvi il prodotto industriale,
consolidando così la subordinazione, ma non è sbagliata definirla anche
sottomissione, dei Paesi terzi mediterranei nei confronti della Comunità, e
meglio dei singoli stati della comunità in questo caso, e quindi danneggiando
anche lo sviluppo degli stessi Paesi in senso politico e sociale. In questa iniziale
epoca di accordi e collaborazioni con i Paesi terzi mediterranei non vi è evidentemente
un piano organico, strutturale ed istituzionale di politica mediterranea della
Comunità, ma anzitutto, la preoccupazione che il Mediterraneo cada nell’orbita
sovietica, come già anticipato. Per parlare di una prima vera e propria
politica mediterranea, bisognerà aspettare il 1972 con l’avvento della Politica,
passata alla storia come, <<Mediterranea Globale>>.
Dal 1972 al 1990
Con il Vertice di Parigi, del 19 ottobre 1972, possiamo
definire concluso il primo ciclo della politica comunitaria nel Mediterraneo,
che avremo modo di vedere si articolerà quasi sempre su cicli ventennali. La
frammentaria e disorganica azione che ne ha caratterizzato il progresso viene
ampiamente modificata, quasi rovesciata, da una nuova impostazione: l’idea di
un’architettura complessiva nel bacino mediterraneo, come meglio si è detto: “approccio
globale” della Comunità Europea nell’area. La necessità di delineare i
rapporti nel Mediterraneo ha spiegazioni sia di carattere interno alla
Comunità, sia legate all’articolata e modificata situazione geopolitica
mondiale: da un lato l’imminente allargamento della Comunità (con l’ingresso di
importanti nazioni quali Inghilterra, Danimarca ed Irlanda) richiede una nuova ridefinizione
degli accordi commerciali già esistenti e di cooperazione-collaborazione,
dall’altro, le paure legate alle forniture di combustile, primariamente e
principalmente il petrolio, premono i governi dei paesi “europei” a nuove
aperture e concessioni verso i Paesi Mediterranei, che non è più sbagliato
definire arabi. La Commissione, rinnovando la politica precedente con l’approccio
globale, conferma l’importanza strategica “dell’equilibrio socio-economico
nella zona” per gli interessi e le attività della Comunità e, a questo fine, individua
come presupposto la crescita economica delle nazioni partner nel mediterraneo.
Con l’avvento della Politica governata dal principio del <<mediterraneo
globale>>, alla categoria degli Accordi di associazione si aggiunge quella
dei nuovi Accordi, definiti di “cooperazione globale”, anch’essi basati sull’articolo
238 del Trattato di Roma. Nel preambolo di questi nuovi patti, di respiro non
solo globale, ma con intento più organico ed estensivo, si espone al mondo la determinazione
di instaurare un moderno schema di rapporti fra Stati industrializzati e Nazioni
in via di sviluppo, compatibili con gli intenti della comunità mondiale che studia
un “ordine economico, complessivo, più giusto ed equilibrato”, almeno nelle
aspirazioni. I nuovi concordati di cooperazione globale si differenziano dagli
accordi di prima generazione, in più punti sostanziali. In primis per l’estensione
dei campi di intervento, definita multisettorialità, oltre la regolamentazione
degli scambi, ecco perché si parla di accordi di cooperazione e non più
solamente commerciali. Inoltre, i rapporti tra la CEE ed i Paesi terzi
mediterranei non sono costruiti più sul solo piano delle concessioni ed
aperture fatte dalla Comunità, che comunque rimangono un tema centrale, ma
sulla cooperazione, in un rapporto fondato sulla comune volontà di agire in
sinergia, con un accento particolare ed innovativo di un maggiore equilibrio,
almeno nelle intenzioni. Gli accordi scaturiti da questi passi e da questi
principi sono definiti, per tanto, globali proprio perché è volontà della
Comunità valutare i Paesi terzi mediterranei nella loro globalità, come un
insieme, non più come singoli Stati, ma come Paesi i cui problemi vanno compresi
in un peculiare contesto regionale, quello del Mediterraneo. Gli accordi di
cooperazione globale che ne seguono sono conclusi nel 1973 con i Paesi del
Maghreb (Algeria, Marocco e Tunisia) e nel 1977 con quelli del Machrek (Egitto,
Siria, Giordania e Libano). Le ragioni per cui gli obiettivi fissati dalla <<Politica
mediterranea globale>> concretamente non vengono mai raggiunti, o lo sono
solo parzialmente e mai continuativamente, sono molteplici; tra quelle di
ambito “extra accordi tra le parti”, congiunturali, vi sono sicuramente: le
crisi monetarie internazionali, l’aggravarsi dell’inflazione e delle tensioni
politiche conseguenti, ma soprattutto, rinnovando il ragionamento sulla
ciclicità dei rapporti Euromediterranei, la recessione economica dell’intero
sistema mondiale, conseguente alla crisi petrolifera del 1973. A causa della
crisi economica mondiale, la meta, tanto ambita, di sviluppare le esportazioni
dei Paesi terzi mediterranei è ostacolato e bloccato dall’assillo della
Comunità di difendere i propri prodotti in particolare in due settori decisivi:
l’agroalimentare e il tessile. Guardando al primo settore indicato, non solo le
concessioni tariffarie parziali non di certo favorevoli, ma le possibilità di
esportazione da parte dei Paesi terzi mediterranei, limitate da una serie di
strumenti, hanno un’incidenza concreta molto negativa sul volume delle
esportazioni, tale da delimitare materialmente i risultati della diminuzione
dei dazi doganali. Per il secondo settore, il tessile, invece, la politica
usata è disuguale: vengono utilizzati degli accordi di autolimitazione “su base
volontaria”; viene preteso, infatti, dai Paesi terzi mediterranei produttori di
rinunciare “volontariamente”, qui il termine è quanto mai abusato, all’esercizio
del vantaggio offerto dai precedenti trattati di cooperazione. L’ambizione di
voler instaurare nuove relazioni con i Paesi terzi mediterranei quindi viene
delusa, laddove addirittura non mortificata. La CEE ha favorito, nella pratica,
gli aspetti unicamente mercantili degli accordi, sebbene i contenuti delle
dichiarazioni di intenti che animano l’azione europea presuppongano anche la
fornitura di assistenza e controllo tecnico specializzato per l’esercizio di
fattibilità dei vari progetti e per la creazione della classe dirigente locale.
Ciò nondimeno, plausibilmente, due ragioni di fondo, che hanno contribuito in
maniera indispensabile alla nascita della Politica mediterranea globale, sono interamente
errate: l’esigenza della Comunità di rifornimenti sicuri di materie prime, provviste
petrolifere massimamente, soprattutto dopo lo shock petrolifero che
giustifica l’avvio con urgenza dello sviluppo e delle esportazioni dei Paesi
terzi mediterranei; e la sicurezza, poi rivelatasi erronea, che lo sviluppo che
sta animando l’economia comunitaria, ritenuto in questa periodo quasi
inesauribile, possa essere lo stimolo anche per le economie dei Paesi terzi
mediterranei, con riflessi evidenti e positivi sulla loro crescita e sui canali
dei prodotti comunitari. Purtroppo venuti a mancare le supposte basi, si qui
descritte, affiorano tutte le incompatibilità di questa concezione, talune delle
quali inconciliabili e che tutt’oggi parzialmente, o quasi totalmente, sono finora
insolute. Una delle principali contraddizioni, valutando la supremazia delle
esportazioni dei Paesi terzi mediterranei, è quella collegata con le
esportazioni agricole, visti i meccanismi protezionistici previsti dalla
Politica Agricola Comune (PAC). Il peso degli interessi che riguardano tale
settore fa sì che tale contrasto non possa essere risolto con la sola
eliminazione delle reti di protezione legale e commerciale, senza, per esempio porre
in crisi sostanziosi segmenti dell’economia delle regioni mediterranee. Un’altra
importante contraddizione è che non bastano le agevolazioni all’ingresso nei
mercati comunitari per accrescere l’export dei Paesi terzi mediterranei. Vi
sono elementi decisivi che non sono stati presi affatto in considerazione. Un prova
ne è la capacità di fornire merci che per caratteristica e modello rispondano
alla richiesta di un mercato sempre più sofisticato come quello europeo e che
quindi richiede un provvedimento da un lato sulla forza lavoro, dall’altro
sull’espansione tecnologica e del sistema produttivo dei Paesi terzi
mediterranei. Una terza contraddizione si deduce dal fatto che al peso delle
esportazioni di prodotti petroliferi dei Paesi terzi mediterranei verso la CEE,
non corrispondano specifici accordi commerciali e di cooperazione legati a
queste esportazioni, nonostante esse sia importanti ed al contempo molto
remunerative. È risaltato maggiormente infatti l’aspetto mercantilistico e,
quindi, queste esportazioni non sono mai diventate la colonna portante di una
cooperazione per lo sviluppo dei Paesi produttori, né occasione per una
maggiore integrazione economica tra questi e la Comunità, che anzi ha sempre
chiuso gli occhi dinnanzi il palese accordo tra stati membri e leder non
democratici. Divenuto certo il concetto dell’insopportabile divario economico e
sociale tra i Paesi della Comunità e i Paesi terzi mediterranei, e considerato
come certo anche il peso degli insuccessi dei tentativi messi in campo, le
istituzioni comunitarie danno inizio ad una forma di cooperazione denominata
come Politica mediterranea rinnovata, che già nel nome ne tradisce spirito ed
intenti. Così la prima fase, intesa in senso ampio, della politica mediterranea
può dirsi conclusa, anche se in realtà una prima divisione l’avevamo già
compiuta indicando come periodo a se stante per interesse e sviluppi, tutto ciò
che va dal 1957 al 1972: la preponderanza dei rapporti di tipo bilaterale ed i processi
difformi tra i diversi Paesi terzi mediterranei, con trattamenti adattati alle
singole circostanze, eludono i programmi di globalità che ne sono alla base. Le
agevolazioni all’ingresso nei mercati comunitari per i prodotti provenienti dai
Paesi terzi non sono state adeguate, o comunque soddisfacenti: le esportazioni
non sono progredite sensibilmente considerando che la qualità e gli standard
delle merci extracomunitarie poco si adeguano alle esigenze della richiesta di
alto livello dei mercati europei. La crescita delle esportazioni, come impulso
al progresso degli investimenti e come propulsore dell’economia dei Paesi terzi
mediterranei, non ha trascinato i paesi mediterranei terzi, e quelle popolazioni,
verso i risultati sperati poiché, anche là dove hanno censito forti aumenti, si
è sempre stati in presenza di manufatti basati su una scienza tecnologica
matura con scarso valore aggiunto. Ciò consiglia di considerare necessaria un
incremento prima di tutto dal lato della qualità delle risorse umane, con
criteri di qualificazione e specializzazione del sistema produttivo, in
particolare sotto il profilo tecnologico.
2. Ripresa
dell'interesse per i rapporti mediterranei (1990 – 1995)
Gli anni ‘90 si aprono alla luce di notevoli mutamenti
storico-politici: il crollo del Muro di Berlino, atto ultimo della “guerra
fredda”, “guerra del Golfo”, l’esplodere della contestazione islamica in
Algeria e la condizione socio-economica dei Paesi terzi mediterranei, fanno
riacquistare, nello scacchiere internazionale, al Mediterraneo una parte della
caratura geopolitica che aveva perso negli anni precedenti a vantaggio dei
Paesi dell’Europa centrale ed orientale, rendendo imprescindibile un’efficace
revisione della politica comunitaria per i nuovi confronti su molteplici
versanti, quindi anche sul tema del governo del Mediterraneo. Tale passaggio,
tuttavia, riporta in prima linea dei fattori di conflitto che il precedente
confronto Est-Ovest riusciva a mascherare, o comunque lasciava sullo sfondo. L’ascesa
dell’islamismo, nel senso pienamente socio-religioso, di matrice integralista,
spesso fanatica; la centralizzazione forte della politica del riarmo e della proliferazione
non convenzionale; la delegittimazione, e spesso disgregazione, interna dei
regimi nazionalisti che detengono il potere mediante politiche soffocanti e dispotiche,
faranno del problema della stabilità e della sicurezza i fulcri principali
della politica europea verso le regioni meridionali, nel grande ganglio che il
Mediterraneo di fine millennio rappresenta. La politica mediterranea dell’Unione
Europea, che negli anni precedenti ha puntato ad obiettivi di collaborazione
cooperativa ed integrazione economica internazionale, viene adesso indirizzata
alla realizzazione della stabilità e tranquillità nell’area mediterranea,
inseguendo il concetto della sicurezza dell’intera regione. È chiaro come
questo sia, ora si, un ribaltamento totale, rispetto alla sola affiliazione
commerciale dei paesi mediterranei, che pure era un metodo indiretto per non
consegnarli alla potenza sovietica. Queste nuove pretese socio-politiche, pur recuperando
in parte le intenzioni ed i progetti di fine ’80, maturate in seno al Comitato
economico e sociale europeo ed alla Confederazione europea dei Sindacati, e a
seguito dell’atto redatto dal Consiglio europeo di Strasburgo, del dicembre
1989, si traspongono nella, cosiddetta, Politica Mediterranea Rinnovata,
la quale non trasforma l’impianto di fondo degli intendimenti comunitari almeno
formalmente, ma incide e varia, ed è un passo storico, la percezione dei Paesi del
bacino Mediterraneo: dopo l’ampliamento verso sud della Comunità, ci si avvia
nella direzione di una prevalenza netta verso un concetto, definito della “prossimità”
dei Paesi mediterranei prima intesi, superficialmente dalle cancellerie
mondiali, come lontani Paesi facenti parte del, così chiamato, “Terzo mondo”.
La “Politica Mediterranea Rinnovata” viene inaugurata con una Risoluzione
adottata dal Consiglio dei Ministri della CEE il 18 dicembre del 1990, adattando
una comunicazione della Commissione del giugno dello stesso anno. In quest’ultima
si evidenziava, infatti, il bisogno di impugnare con concretezza strumenti
efficaci nel campo della tutela ambientale, in quello dell’accrescimento,
quantitativamente e qualitativamente, delle risorse umane e si richiedeva lo svecchiamento
dei Protocolli finanziari con le Nazioni del Mediterraneo. Tali Protocolli
hanno decorso quinquennale ed assicurano le modalità della collaborazione
finanziaria comunitaria per lo sviluppo socioeconomico dei Paesi terzi
mediterranei, per gli atti di sostegno rivolti alla realizzazione di inventi
strutturali e per l’impulso e l’incentivo di riforme economiche in alcuni Paesi
mediterranei. Gli obiettivi devono essere raggiunti tramite il rafforzamento dei
patti bilaterali di cooperazione-collaborazione o di associazione in atto. La
cooperazione finanziaria istituisce un nuovo corso nelle relazioni tra le
sponde del mediterraneo, rappresentando sicuramente la principale innovazione
della Politica rinnovata. I provvedimenti, infatti, non sono sanciti unicamente
dai Protocolli finanziari e gestiti dai governi locali, ma viene creata una cooperazione
di tipo <<orizzontale>>, gestita dalla Comunità, che riguarda quasi
la metà delle risorse totali comunitarie destinate al Mediterraneo. Dal 1992
gli ambiti di operatività sono: ambiente, cooperazione regionale e cooperazione
decentrata. È proprio la <<cooperazione decentrata>> a raffigurare
l’aspetto più rilevante della Politica rinnovata, quasi un’anteprima del periodo
successivo, quello del partenariato euro-mediterraneo. Lo sviluppo delle
nazioni mediterranee, in questa nuova ottica, viene promosso e favorito tramite
la collaborazione fra interpreti delle società civili appartenenti sia alla
Comunità che ai vicini mediterranei, in un allargamento teorico ancor prima che
pratico. In un contesto siffatto la Commissione, nel 1992, lancia i programmi <<Med>>.
Queste pianificazioni constano di una serie di azioni di cooperazione
decentralizzata avviate da reti di organizzazioni attive nel settore pubblico e
privato negli stati comunitari ed in quelli terzi mediterranei. I programmi Med
provengono dall’impegno comunitario di insistere e promuovere una cooperazione
multilaterale con e tra i Paesi terzi mediterranei. Essi hanno matrice nell’inadeguatezza
dei Protocolli finanziari, che erano schemi bilaterali tra Stati, non idonee a pilotare
a buon fine l’amministrazione del mediterraneo. Nascono così programmi di
cooperazione diretti in settori peculiari, o meglio specificatamente indicati:
ad esempio il programma “MedCampus”, che punta ad aumentare e le conoscenze
scientifiche e tecnologiche, al fine di promuovere la crescita autonoma e la
susseguente autonomia economica dei Paesi terzi del Mediterraneo; il progetto
“MedUrbs”, ulteriore esempio, che punta al rilancio dello sviluppo urbano delle
Nazioni mediterranee tramite la fornitura da parte Comunitaria del know-how e
dell’assistenza tecnica essenziale; il progetto “MedInvest”, ancora, che è
invece volto alla fondazione e sviluppo delle piccole e medie imprese. Un’altra
novità della Politica rinnovata è costituita dalla creazione di dinamiche di supporto
alle riforme economiche che si concretizza in una razione finanziaria, coordinata
e condotta dalla Commissione, per adoperarsi in quei Paesi che stanno conseguendo
Programmi di sistemazione ed ammodernamento strutturale. I fondi in questione
però non sottostanno a logiche meramente assistenzialistiche o di ricatto: sono
destinati, piuttosto, al fine di sorreggere le riforme strutturali e, nella
fattispecie, quelle settoriali; questo è determinato dal fatto che il Consiglio
li ha ridotti a semplici interventi di soccorso per i danni provocati dai
Programmi sull’occupazione e sui redditi della popolazione. Benché queste
azioni abbiano rappresentato alcune delle sperimentazioni di cooperazione più progredite
compiute dalla Comunità, l’impegno preso in favore “dell’universo Mediterraneo”
si è palesato come insufficiente nell’ardua sfida di colmare il gap Nord-Sud,
che continua ad essere sempre maggiore. Di fatto non c’è stata la rettifica
strategica auspicata, anche se un cambiamento di visione e direzione è stato
comunque incastrato, quasi a forza, tra le molteplici questioni che riguardano
l’Europa. Se nella prima fase della politica mediterranea i Paesi terzi
mediterranei venivano identificati come Paesi del Terzo mondo, con l’ampliamento
della Comunità verso Sud, ci si “accorge” che di fatto questo Terzo mondo è
molto vicino, e non è ignorabile. Viene agevolata, quindi, la “concezione della
prossimità”, ma connessa a quella di rischio e paura, da sventare o da
prevenire. Preoccupano le tensioni sociali e religiose e le opposizioni interne
mai risolte, rappresentate da una zona d’instabilità molto vicina ai confini
meridionali dell’Europa unita. Ad incentivare le preoccupazioni tra i due
bacini del Mediterraneo contribuisce poi il peso che viene attribuito agli
Stati dell’Europa centrale e dell’est (PECO). I Paesi del Maghreb immaginano,
temendo questa prospettiva, che l’Europa chiuda i confronti ed i rapporti col
Medio Oriente, perché più attratta, il riferimento è a specifici paesi
dell’Unione come la Germania, a concentrare la propria attenzione ai Paesi PECO,
diminuendo così gli aiuti e gli approvvigionamenti finanziari loro diretti.
Questa visione, risultata, lungimirante ed accorta è stata comprovata dalla determinazione
del Consiglio di ridurre del 35% l’importo globale delle erogazioni proposto
dalla Commissione per il periodo 1992-1996. È doveroso, comunque, rimarcare
come la nuova linea d’azione, la “cooperazione finanziaria orizzontale”, che
intanto è stata attivata ed estesa a molteplici realtà, permetta che gli
incrementi finanziari non siano convogliati, come nel passato, solo nelle regole
finanziarie gestite sostanzialmente dai Governi dei Paesi terzi mediterranei.
Inoltre, l’innovazione più rilevante, ovvero l’inserimento della cooperazione
decentrata di fatto precorre la concezione del “prossimo” Partenariato
Euro-Mediterraneo. Si prosegue però ad abdicare dall’instaurarsi una politica
che affronti assennatamente e praticamente i grovigli dell’arretratezza dei
Paesi terzi mediterranei, sottovalutando colpevolmente la grande questione del
loro debito estero che anzi è stato ed è tutt’ora un fattore fondamentale da chiarire
per permettere il rilancio delle economie dell’area. I giudizi alla Politica
Mediterranea Rinnovata e le intenzioni avanzate dal Comitato economico e
sociale europeo divengono, fin dalla fine degli anni ‘80, la piattaforma delle
rivendicazioni di molti governi dei Paesi terzi mediterranei, specificatamente
di quelli per cui Il partenariato comincia a prendere forma nel 1992, a seguito
di una Comunicazione della Commissione su “Il futuro delle relazioni tra la
Comunità e il Maghreb”. Questo iniziale orientamento decentrato verrà in un
secondo tempo esteso a tutto il bacino Mediterraneo. Nell’ottobre del 1994, la
Commissione approva un atto nel quale si richiede l’assunzione di
responsabilità, attraverso l’avvio di una politica mediterranea più incisiva e l’avvio
di un moderno Partenariato Euro-Mediterraneo. Il Consiglio europeo di Essen,
nel dicembre sempre del 1994, riceve e fa suoi gli orientamenti della
Commissione e la spinge affinché trasmetta pareri specifici che formano, una
volta redatti, il contenuto di una Comunicazione del marzo 1995 su: “Il
consolidamento della politica mediterranea dell’Unione Europea: proposte per la
creazione di un partenariato euro-mediterraneo”. Come base del Partenariato
euro-mediterraneo compare un progetto di cooperazione e integrazione
interregionale strutturato essenzialmente sulla creazione di un’area di libero
scambio. L’asse è portante di tale progetto è identificabile nella collaborazione,
che si fonda ora, non solo sulla <<prossimità>> geografica,
ma anche storica e culturale delle aree che si affacciano sul Mediterraneo. Il
partenariato raffigura il massimo strumento per contenere i pericoli che il dislivello
economico tra le due sponde del bacino e le profonde crepe in ambito
sociopolitico (l’integralismo islamico e le fragilissime fondamenta popolari) finiscano
in un netto allontanamento dall’Unione.
3. Conferenza di
Barcellona (1995)
La Conferenza di Barcellona del 1995 inaugura ufficialmente
il Partenariato Euro-mediterraneo (PEM).
Le Nazioni che condividono il progetto e partecipano alla
Conferenza sono i quindici membri dell’Unione Europea e dodici Paesi terzi
mediterranei: Algeria, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta,
Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e l’Autorità Palestinese. Il partenariato
euro-mediterraneo consta di tre parti: una prima rivolta alla creazione di “uno
spazio comune, coincidente con il bacino del Mediterraneo, di pace e stabilità”
definito, per l’appunto, <<partenariato politico e di sicurezza>>;
una seconda che si rivolge ad instaurare “un’area di prosperità condivisa”
attraverso il <<partenariato economico e finanziario>>; ed
infine una terza, <<il partenariato nei settori sociale, culturale e
umano>>, indirizzata allo “sviluppo delle risorse umane, […] della
comprensione tra le culture e degli scambi tra società civili”. La
Dichiarazione finale della Conferenza recupera la parte fondamentale delle idee
proposte dalla Commissione e fissa degli orizzonti comuni sul tema della
stabilità interna ed esterna con l’obiettivo di realizzare per l’anno 2010 un
vero e proprio “partenariato”, ovvero una connessione che vada oltre la
collaborazione, cui spesso si è approdati sin qui. Nel documento compaiono le affinità
fra pace, democrazia ed integrazione economica internazionale che sostengono la
novella politica mediterranea dell’Ue. In tale quadro la cooperazione economica
regionale concorre a corroborare la pace e la democrazia. Democratizzazione della
vita politica e della società, legittimità e pluralismo sono i fattori che permettono
l’affiorare di connessioni interstatali imperniati sulla risoluzione ordinaria
e conciliante delle contese, considerando ovviamente principi e regole del
diritto internazionale. La spinta democratica indotta nei partner mediterranei
viene vista, inoltre, come elemento basilare per convertire e sostituire il
ruolo dello Stato nell’economia, al fine di avanzare verso la privatizzazione e
la liberalizzazione. Il consolidamento interno ed il miglioramento delle
condizioni dei mercati incoraggiano il rientro dei capitali rifugiati all’estero
e gli investimenti esteri, con i relativi cessioni di tecnologia. Questo sviluppo
è sorretto dalla cooperazione economica internazionale, cioè dal Partenariato,
che connette il processo di democratizzazione e l’integrazione internazionale (sviluppo
economico, aumento dell’occupazione, calo della povertà: moderano le pressioni verso
l’integralismo politico, infine viene calmierato anche il tasso di immigrazione).
Dal punto di vista economico, il testo di Barcellona presenta la statuizione di
un’area di libero scambio da compiere entro il 2010 tramite una serie connessa
di accordi bilaterali tra UE e Paesi terzi mediterranei e tra gli stessi Paesi
mediterranei (al fine di incentivare la cooperazione economica sud-sud): gli
accordi, di natura commerciale e tariffaria, i patti di tipo
politico-amministrativo, mireranno a togliere barriere ed ostacoli alla libera
circolazione delle merci. In più, il Processo di Barcellona ha instaurato uno
schema di cooperazione regionale innovativo, diversamente dalle precedenti
politiche comunitarie per il Mediterraneo, perché prende le mosse al tempo
stesso dalla cooperazione multilaterale, dalla cooperazione bilaterale sancita
dagli Accordi euro-mediterranei di associazione, che legano gli Stati Mediterranei
con l’Unione europea, e dalla cooperazione sub-regionale.
Anche le erogazioni ed i finanziamenti che verranno erogati
saranno più corposi e assegnati avendo come criterio un nuovo meccanismo: non
più convenzioni finanziarie bilaterali, ma una nuova linea di bilancio (linea
MEDA). Questo metodo così nuovo è diretto al sostegno della liberalizzazione economica
(crescita del settore privato, piccola e media impresa e cooperazione
industriale con l’Europa, in un palinsesto di atti miranti alla complessiva
formazione di saldi elementi economici) ed all’aggiornamento delle
infrastrutture, sia sotto l’aspetto materiale che giuridico-amministrativo. Il
bilancio MEDA condiziona l’erogazione dei finanziamenti al rispetto di precisate
condizioni di creazione politica a cui i Paesi terzi mediterranei devono adattarsi,
pena il blocco dei finanziamenti, come la difesa della democrazia, in tutti i
suoi aspetti, e la sorveglianza sui diritti umani. Nel corso del 1997 viene ratificato
il Programma MEDA, il quale ha lo scopo di irrobustire il potenziale di
sviluppo interno tramite decisioni riguardanti liberalizzazioni e
ristrutturazioni. Gli Stati beneficiari dell’intervento sono: Marocco, Algeria,
Tunisia, Egitto, Palestina, Israele, Giordania, Siria, Libano, Turchia, Malta e
Cipro. Il Programma MEDA identifica alcune macro-aree di operatività e degli
obiettivi preminenti per i quali sono collocati a disposizione, dei paesi
appunto, soprattutto assistenza tecnica e sovvenzioni, ma anche consulenze. Le
principali aree d’intervento sono: il “sostegno all’economia”, che si attua con
azioni volte a favorire la modernizzazione dell’apparato industriale, a rinforzare
gli investimenti privati europei e a riformare l’apparato giuridico entro il
quale le imprese operano; e “l’equilibrio socioeconomico” consistente nel perfezionamento
dei servizi sociali e dell’istruzione, nella vigilanza sulle tematiche dell’ambiente
e lo sviluppo del mondo rurale. Un terzo aspetto, relativo al partenariato finanziario,
riguarda il progresso della cooperazione settoriale. Le istituzioni convogliate
nel progetto “di Barcellona” promuovono il concorso e gli accordi tra progetti
europei ed imprese provenienti dai Paesi terzi mediterranei. Si fa, perciò, dichiarato
riferimento alle specifiche sezioni dell’economia: in ambito industriale, si
punta alla ricostruzione delle imprese pubbliche e private, alla crescita delle
Piccole e Medie Imprese (PMI), alla estensione e diffusione di norme
internazionali; in agricoltura, si persevera sulla differenziazione della
produzione e sulla trasformazione della dipendenza alimentare; nei trasporti, è
studiata la relazione della rete mediterranea a quella trans europea; nel campo
energetico, le nazioni mediterranee vengono affiliate ai protocolli europei
sull’energia e sono previste azioni relative alle varie fasi della raffinazione
e distribuzione di combustibili fossili (petrolio e gas); nelle
telecomunicazioni, concludendo, la cooperazione si attua nell’apertura di
contatti, connessioni ed allacciamenti con le reti europee, nel munire di infrastrutture
legali e nuovi servizi. Nella Dichiarazione di Barcellona l’approfondimento
economico non costituisce l’unica attrazione della Comunità, ma è solo una parte
costituente un dialogo più vasto che cinge congiuntamente la dimensione
politica, sociale, ambientale. Lo sviluppo sociale deve avanzare parallelamente
alla crescita economica e la decentralizzazione della cooperazione in tale
campo deve interessare i principali interpreti della società politica e civile,
l’universo religioso e culturale, università e centri di ricerca ed inoltre gli
attori economici pubblici e privati. Il PEM deve tuttavia essere studiato anche
da un diverso punto di vista, quello dei Paesi terzi mediterranei. Per questi
Paesi i fini di consolidamento sono considerati come unilaterali, poiché si imputano
alla sicurezza europea, e degli europei, e non a quella araba che scaturisce da
circostanze che non riguardano l’Unione. In più, se da un lato il partenariato facilita
per loro notevoli passaggi economici, dall’altro porta in sé il pericolo di divenire
una vera e propria forma di interferenza interna da parte dell’Occidente e
quindi un motivo di instabilità. Pertanto, accanto all’importanza di stabilire
nella regione mediterranea una forte collaborazione economica con l’Unione
Europea, il partenariato crea, per i partner mediterranei, l’opportunità di partecipare
con l’Ue alle istituzioni di cooperazione internazionale, al fine di poter
avere una voce nei processi politici europei ed atlantici da cui deriva l’evoluzione
futura dell’area. Per quanto concerne l’integrazione orizzontale fra le nazioni
a sud del Mediterraneo questa, nel progetto di partenariato, assume un’importanza
vitale. Il Partenariato, difatti, assegna le proprie sorti alla crescita dell’export
dei Paesi terzi mediterranei, sviluppo che dipende esclusivamente dall’apertura
di questi mercati: le concessioni dal lato dell’offerta dati dalla concorrenza
comunitaria, l’aumento della domanda di importazioni causata dalla eliminazione
degli sbarramenti ai commerci, raffigurano i maggiori fattori di aumento per i
partner meridionali. Gli Stati del Partenariato Euro-Mediterraneo perseguono un
approccio ordinato e realistico, perché l’interazione non è esente da contrapposizioni
e le attese degli attori non sempre sono confluenti. Data la delicatezza dell’area
e le controversie politiche tra alcuni degli attori implicati, il criterio di
lavoro adottato dai Paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo è quello di avanzare
con affermazioni politiche e programmi specifici, più che tramite dispositivi
legali codificati in trattati internazionali che obblighino i partner sul piano
multilaterale. Per questo si parla di un quadro istituzionale “leggero”. Per
quanto riguarda la cooperazione regionale viene inserito il principio di riunire
periodicamente gli aderenti a tutti i livelli, per perfezionare le discussioni
avviate con ogni Paese sulla base dei separati accordi, nell’idea che il piano
più efficiente consista nel coinvolgimento attivo di tutte le forze di entrambe
le società civili in un’ottica, difatti, di partenariato. Sulla base del
Programma di Lavoro di Barcellona, gli esiti a cui si è arrivati nelle varie
riunioni convergono in un’unica documentazione, sottoposta all’esame della seguente
Conferenza Euro-Mediterranea dei Ministri degli Esteri, che dovrebbe riscontrare
lo stato di promozione del Processo e rivitalizzarlo con nuove idee.
Significativo è tuttavia il fatto che, dopo la prima Conferenza Ministeriale di
Barcellona del 1995, le successive Conferenze Ministeriali sono tenute tutte in
città europee. Si tratta invero di un decorso regionale in cui il
coinvolgimento dei Paesi del sud del Mediterraneo non è compiuto. Il Piano d’azione
adottato ed ammesso a Valencia nel 2002 è stato steso, viceversa, in prosecuzione
delle consultazioni che la presidenza spagnola, la Commissione e il
Segretariato Generale del Consiglio europeo avevano tenuto con tutti i partner.
Pertanto questo atto, alla maniera della Dichiarazione di Barcellona ed in difformità
delle Conclusioni Finali delle Conferenze Ministeriali, ha vincolato
politicamente tutti i partner. Anche il Programma di lavoro quinquennale accettato
al Vertice, che nel novembre 2005 ha riunito a Barcellona i capi di Stato e di
Governo dei Paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo, si recepisce come
politicamente vincolante per tutti le nazioni del Partenariato. Con il Piano d’azione
di Valencia i Paesi del PEM, identificando le problematicità che esso ha incrociato
nel cercare di raggiunge gli obiettivi decisi nella Dichiarazione di Barcellona,
hanno manifestato l’urgenza di rilanciare il Processo e di ottenere migliore
visibilità, efficacia ed attendibilità. Il Piano d’azione di Valencia e il Programma
di lavoro di Barcellona non si limitano a comprovare l’identico coinvolgimento dei
partner a perseguire la pace, la stabilità e la prosperità nel Mediterraneo;
piuttosto si prende atto dei limiti incontrati dal Partenariato Euro-Mediterraneo
in questi anni e se ne ridefiniscono i congegni operativi. Tra i punti più
significativi del Piano d’azione vi è l’inizio del concetto di “co-ownership”,
che risponde alle critiche più comuni mosse nei confronti del Partenariato dai
partner, ovvero che esso viene governato completamente dagli Stati membri dell’Unione
europea e dalle istituzioni comunitarie, senza coinvolgere i Paesi del Sud
nelle scelte più rilevanti, rompendo il patto così nei fatti al principio di
partenariato. Se le Conferenze dei Ministri
degli Esteri delineano le linee guida del Partenariato Euro-Mediterraneo e individuano
i compartimenti di cooperazione di maggiore interesse, la formazione delle
singole politiche ha luogo poi nelle Conferenze ministeriali settoriali. Fino a
questo momento si sono tenute con una certa costanza Conferenze ministeriali
sulla cooperazione industriale, sul commercio, sull’ambiente, sulla gestione dell’acqua,
sulle risorse energetiche, sulla cultura. Raramente ci sono state Conferenze
ministeriali su sanità, agricoltura, società dell’informazione, sicurezza
energetica, istruzione e ricerca scientifica. Mentre, nessun incontro
ministeriale si è occupato direttamente dei temi che fanno parte nel
Partenariato politico e di sicurezza, che sono piuttosto illustrati dagli Alti
funzionari. In materia di sicurezza le riunioni tra alti funzionari sono
serviti per comporre le diverse elaborazioni di sicurezza e per redigere la
bozza di Carta per la Pace e la Stabilità nel Mediterraneo, che non è mai stata
adottata. Un altro congegno prodotto nel campo della cooperazione regionale è
il Comitato Euro-Mediterraneo per il Processo di Barcellona, formato da alti
funzionari dei Paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo e che, però, è
presieduto, dall’Unione europea. Per fronteggiare le critiche rivolte all’Unione
come epicentro decisionale di ultima istanza, il Piano d’azione di Valencia ha
deciso la riorganizzazione del Comitato per assicurare agli stati del
Mediterraneo una maggiore partecipazione nell’elaborazione e nella stima dei
programmi regionali o dei progetti accettati dalle Conferenze dei Ministri
degli Affari esteri.
Altra situazione, che ha fatto immaginare ai Paesi della
sponda sud del Mediterraneo che rispetto all’Unione non avessero sufficientemente
potere deliberativo nell’implementazione dei progetti, sta nel fatto che è la
Commissione europea che svolge compiti da segretariato del Partenariato
Euro-Mediterraneo; essa è, appunto, responsabile del coordinamento, dell’allestimento
e del monitoraggio del Processo di Barcellona e della realizzazione delle
attività finanziate con il programma MEDA. In ogni caso, talune delle
raccomandazioni della Commissione sono state ricevute nel Piano d’azione di
Valencia, come l’intenzione di adottare un programma di cooperazione regionale
per opporsi al terrorismo, le questioni di giustizia e libertà di movimento; mentre
la sollecitazione della Commissione di dare più rilievo ai diritti umani e ai
principi democratici nei rapporti dell’Unione europea con i Paesi del
Mediterraneo e vincolare la consegna dei fondi MEDA al miglioramento in questi
settori è stata solamente trasposta in un incarico agli Alti funzionari per
studiare l’elaborazione di un procedimento più organizzato per irrobustire il
dialogo politico. Finora le questioni legate a democrazia e diritti umani nei
Paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo sono ufficialmente discusse solo nel
contesto di EuroMeSCo. Nel panorama istituzionale del Partenariato
Euro-Mediterraneo vi è anche la così chiamata “diplomazia parlamentare” che ha
una sua natura autonoma. Il processo di istituzionalizzazione della comunicazione
parlamentare è stato relativamente lungo, e questo rivela la reticenza di
alcuni Paesi ad attribuire autonomia alla cooperazione tra parlamentari. Già
nel 1995 il Programma di lavoro allegato alla Dichiarazione di Barcellona consigliava
il Parlamento europeo ad stabilire un dialogo tra i rappresentanti dei
parlamenti dei Paesi del Mediterraneo, ma solo nell’ottobre 1998 si è tenuto il
1° Forum Parlamentare Euro-Mediterraneo103. Il Forum Parlamentare si è poi tramutato
in Assemblea parlamentare nel marzo 2004. L’assemblea Parlamentare
Euro-Mediterranea (APEM) si riunisce una volta l’anno in seduta plenaria e
adotta dichiarazioni politiche che assegnano grande interesse al contributo di
forum non governativi, come il colloquio parlamentare, per seguire la stabilità
nel Mediterraneo e sostenere la continuità alla cooperazione regionale. Però,
perché questa assemblea possa concedere ai parlamentari del Mediterraneo un
forum di colloquio franco e costruttivo, tutte le delegazioni parlamentari dei
Paesi del PEM devono essere veramente presenti e devono poter prendere parte ai
lavori senza prepotenze da parte dei governi. Di fatto, se, da un lato, un’Assemblea
Parlamentare dei popoli del bacino del Mediterraneo può rappresentare un‘assise
dove esercitare i principi democratici, dall’altro, a questi incontri molti
parlamentari del Nord Africa e del Medio Oriente hanno finora partecipato come
portavoce delle posizioni politiche dei loro Paesi, più che sfruttare questa
circostanza della rappresentanza democratica per esprimersi criticamente sull’assenza
di democrazia e libertà politiche e civili. Bisogna poi valutare che il
Partenariato Euro-Mediterraneo ha il potenziale per agire come security
community-building institution, cioè come processo che dirama e istituzionalizza
valori, norme, e tolleranza reciproca, ma questo non può avvenire in un’area
non pacificata. Le misure di partenariato sono indispensabili ma non
sufficienti per la creazione di un sistema di sicurezza in cui le controversie
siano sostenute con congegni non militari, per sviluppare la comprensione e la
fiducia reciproca, per avviare procedimenti di gestione e prevenzione dei
conflitti. Attraverso il Partenariato Euro-Mediterraneo il tortuoso percorso di
institution-building nel Mediterraneo, dato dalla creazione di
istituzioni e dall’accordo su obiettivi, procedure e strategie comuni, è stato
segnato, ma l’avanzamento di questo processo è stato bloccato da problemi
politico-territoriali ancora insoluti e, di conseguenza, il suo risultato
futuro permane non rassicurante. È evidente che l’Europa ha un interessamento
molto forte a sostenere lo sviluppo economico dei Paesi terzi mediterranei,
perché lo sviluppo di crescita economica rappresenta il mezzo più sicuro per consolidare
tutta la regione. È
ovvio inoltre che in ciascuna Nazione
partner i dilemmi si pongono in termini disuguali ma tutti, immancabilmente,
sono interpellati ad affrontare sfide comuni come la forte tensione
demografica, la popolazione agricola numerosa, la differenziazione insufficiente
della produzione e degli scambi industriali, la debolezza del commercio intra
regionale, il settore pubblico poco efficiente e troppo esteso. Il processo di
liberalizzazione degli scambi proposto dall’Unione europea, si iscrive in un
doppio contesto di regionalizzazione e globalizzazione che contribuisce,
largamente, a promuovere il partenariato economico e finanziario visto che i
concetti di globalizzazione e regionalizzazione, piuttosto che processi
antitetici, sono processi complementari108.
La cooperazione, dunque, per quanto in un‟ottica di maggiore
collaborazione e ricettività nei confronti delle richieste dei Paesi partner, è
stata concepita in chiave eurocentrica e orientata a “sollevare” le condizioni
di tali Paesi e a condurle quanto più vicino possibile a quelle europee109 .
Tuttavia, a Barcellona si prende coscienza di un‟evidenza
importante e cioè che il Mediterraneo non è una frontiera impermeabile che
permette di isolare a lungo gli uomini e di far coesistere pacificamente
ricchezza e povertà, soprattutto in un momento in cui la mondializzazione
comprime le dimensioni del tempo e dello spazio110.
4. Politica Europea di Vicinato (2003)
Nel marzo del 2003 la Commissione inizia a delineare i
contorni di quello che diventerà l‟approccio dell‟Unione europea verso i Paesi
confinanti, che include, su pressioni dei Paesi rivieraschi, anche l‟area MEDA.
Il nuovo approccio, la Politica Europea di Vicinato (PEV), si propone
una visione ambiziosa e di ampio respiro. Gli obiettivi dell‟Unione europea sono,
infatti, quelli di creare una zona di prosperità e buon vicinato ai propri
confini, nella convinzione che, in futuro, “la capacità dell‟Unione di
garantire ai suoi cittadini sicurezza, stabilità e sviluppo sostenibile, non
sarà più dissociabile dalla sua volontà di intensificare le relazioni con i
Paesi limitrofi”111. Sin dai primi passi, la sostanziale novità di tale
politica di prossimità è il riconoscimento della forte interdipendenza tra
l‟Unione europea e i Paesi vicini, da cui deriva il tentativo della nuova
politica di superare una distinzione netta tra politica interna e estera,
offrendo, anche a Paesi di cui non viene prevista l‟adesione, vantaggi e
opportunità finora riservati ai soli membri dell‟Unione112. L‟offerta
dell‟Unione ai propri vicini consiste nella concessione di una posizione di
privilegio sul mercato interno, e in una maggiore partecipazione alle quattro
libertà (libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle
persone) a fronte dell‟adozione, da parte dei Paesi coinvolti, di riforme
economiche e istituzionali, e di una cooperazione efficace in materia
energetica, nel settore dei trasporti e nella lotta al terrorismo. Lanciata
dalla Commissione con la Comunicazione “Wider Europe”113, la Politica
europea di vicinato, si inserisce in un momento storico decisivo caratterizzato
dall‟entrata nell‟Unione europea di dieci nuovi Paesi114, in maggioranza
dell‟Europa centro-orientale. La sfida è grande e rappresenta un ulteriore
passo avanti verso il raggiungimento dell‟obiettivo di una vasta zona di pace e
di stabilità ai confini dell‟Unione europea. Da qui l‟Unione assume un impegno
concreto e rafforzato al fine di permettere l‟adesione di un ulteriore gruppo
di Paesi, rappresentato dalla Romania e dalla Bulgaria115, e dai Balcani
occidentali. Tuttavia, l‟allargamento non costituisce l‟unica soluzione: alle
porte dell‟Unione allargata si trova una serie di Paesi per i quali non
esistono prospettive di adesione, ma che possiede un‟importanza strategica per
l‟Unione Europea116. Vi è, inoltre, la necessità di bilanciare verso sud l‟area
di influenza europea per soddisfare le richieste dei Paesi comunitari
mediterranei, in primis della Francia. La politica di prossimità
diviene, quindi, uno strumento bivalente, attraverso cui preparare il terreno
per il prossimo allargamento e ricercare anche una maggiore integrazione con i
Paesi vicini del Mediterraneo117. La Commissione ipotizza, perciò, a tal fine
la creazione dello strumento di vicinato e partenariato118. Quindi, con una
Comunicazione del maggio 2004119, decide che lo strumento di prossimità opererà
attraverso due distinte finestre, una dedicata alla cooperazione
transfrontaliera e un‟altra, più flessibile, dedicata ad una più ampia
cooperazione transnazionale. Specifica, inoltre, l‟ambito di attuazione della
fase transitoria della politica di prossimità: si farà ricorso a strumenti già
esistenti a livello comunitario, inserendosi nella strategia della politica di
cooperazione esterna dell‟Unione verso i paesi terzi “vicini” e assumendo
l‟approccio alla cooperazione sperimentato nel quadro di INTERREG III120.
La politica di prossimità si rivolge, dunque, anche a tutti
i Paesi coinvolti nel Partenariato Euro-Mediterraneo, ad eccezione però della
Turchia121 (che si trova in fase di pre-adesione all‟Unione europea) e di Cipro
e Malta, che sono entrati a far parte dell‟Unione nel 2004; pertanto i Paesi
interessati sono: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco,
Territori Palestinesi, Siria e Tunisia. L‟Unione europea non ha, invece, al
momento accordi con la Libia, ma, a seguito della sospensione delle sanzioni
delle Nazioni Unite e secondo quanto deciso in occasione della Conferenza dei
Ministri degli Esteri di Stoccarda del 15-16 aprile 1999 (“Barcellona III”), la
Libia ha acquisito lo status di osservatore nel Partenariato Euro-Mediterraneo,
senza però entrare a farne parte. Tuttavia, in occasione della 2609ª Sessione
del Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne tenutasi in Lussemburgo l‟11
Ottobre 2004, l‟Unione europea si è impegnata a revocare l‟embargo sulle armi
nei confronti della Libia e ad abrogare le misure restrittive122, in modo da
permettere la piena integrazione della Libia nel processo di Barcellona.
L‟ingresso nel partenariato (che passa attraverso la negoziazione di un accordo
di associazione con l‟Unione europea) costituisce premessa affinché la Libia
possa entrare a tutti gli effetti nel contesto della politica di prossimità.
Il metodo proposto dalla Commissione per raggiungere gli
obiettivi della politica di prossimità consiste nella definizione, assieme ai
Paesi vicini, di una serie di priorità da inserire in Piani di azione123, che
definiscono gli obiettivi prioritari nella cooperazione fra l‟Unione europea e
il Paese in questione. Il raggiungimento degli obiettivi previsti dai Piani di
azione124 permetterà la stipula di una nuova relazione contrattuale tra Unione
europea e Paesi vicini, gli Accordi europei di prossimità125, che sostituiranno
i precedenti accordi bilaterali. Nel caso dei Paesi del bacino del
Mediterraneo, i piani di azione sono mirati a rendere più operativi gli
obiettivi contenuti negli accordi di associazione, attraverso un più stretto
legame con i programmi di sviluppo dei Paesi terzi e con la normativa e gli
standard europei.
Da un punto di vista operativo, la nuova politica di
prossimità si è tradotta nell‟adozione di nuovi strumenti finanziari, che a
partire soprattutto dal 2007 hanno riorganizzato e semplificato radicalmente il
profilo dell‟assistenza esterna dell‟Unione europea126. I precedenti strumenti
di assistenza esterna, tra cui appunto il MEDA per l‟attuazione del
Partenariato Euro-Mediterraneo, sono stati infatti sostituiti dallo Strumento
di vicinato e partenariato.
Dal 1° Gennaio 2007 gli strumenti di cooperazione MEDA e
TACIS127 sono stati sostituiti dallo Strumento europeo di vicinato e
partenariato (ENPI)128. Questo è, insieme allo strumento di Pre-Adesione129 e
allo strumento di Cooperazione allo sviluppo130, uno dei nuovi strumenti
geografici che compongono il neo “pacchetto aiuto esterno” dell‟Unione
europea131.
Il programma è volto a fornire assistenza comunitaria,
cosicché possa nascere una zona di prosperità e di buon vicinato tra l‟Unione
europea e i Paesi ed i territori limitrofi132. Dei Paesi ex MEDA fanno ora
parte del nuovo programma Algeria, Autorità Palestinese della Cisgiordania e di
Gaza, Egitto, Israele, Libano, Libia, Marocco, Siria e Tunisia; la Turchia è,
invece, compresa tra i Paesi candidati effettivi o potenziali133.
L‟assistenza comunitaria mira a promuovere il dialogo e le
riforme in campo politico; a sostenere il ravvicinamento delle legislazioni e
delle regolamentazioni verso standard più elevati in tutti i settori di
pertinenza. Essa tende a favorire lo Stato di diritto e il buon governo, in
particolare rafforzando l‟efficienza dell‟amministrazione pubblica,
l‟imparzialità e l‟efficienza del potere giudiziario e sostenendo la lotta
contro la corruzione e le frodi. Mira inoltre ad incoraggiare lo sviluppo
sostenibile, la protezione ambientale, la gestione sostenibile delle risorse e
le politiche volte alla riduzione della povertà, al fine di contribuire al
raggiungimento dei Millennium Development Goals delle Nazioni Unite134.
Suo scopo è quello di garantire una gestione delle frontiere
efficace e sicura, di promuovere la cooperazione in materia di giustizia e
affari interni, comprese questioni quali il diritto d‟asilo e la migrazione, e
le azioni volte a combattere e a prevenire il terrorismo e la criminalità
organizzata; nonché, fornire sostegno nelle situazioni di post crisi,
segnatamente in termini di aiuti ai profughi e agli sfollati e contribuire alla
prevenzione dei conflitti e alla preparazione alle catastrofi135.
A livello pratico, il sostegno136 previsto da tale assistenza
si concretizza attraverso programmi nazionali o multinazionali di assistenza
rivolti ad un Paese partner o tramite programmi relativi alla cooperazione
regionale e sub-regionale tra due o più Paesi partner, che prevede anche la
partecipazione degli Stati membri; oppure, attraverso programmi tematici,
relativi ad uno o più problemi specifici condivisi da diversi Paesi partner che
possono essere di rilevanza per uno o più Stati membri; o, infine, con
programmi di cooperazione transfrontaliera che riguardano la cooperazione tra
uno o più Stati membri e uno o più Paesi partner e che interessano regioni
confinanti con la parte comune delle frontiere esterne dell‟Unione europea di
loro competenza. Il coordinamento per l‟attuazione del programma varia in relazione
alla tipologia di azioni. Per i programmi nazionali o multinazionali sono
adottati dei documenti di strategia, contenenti indicazioni pluriennali dotate
di specifici budget: sulla base dei documenti di strategia la Commissione
adotterà i c.d. programmi d‟azione (di norma su base annuale) che stabiliscono
gli obiettivi perseguiti, i settori d‟intervento, una descrizione delle azioni
da finanziare, i risultati attesi, le modalità di gestione, nonché l‟importo
del finanziamento previsto.
Per quel che riguarda i programmi di cooperazione
transfrontaliera137 vengono adottati uno o più documenti di strategia
specifici, sulla base dei quali sono poi implementati i programmi operativi
congiunti, relativi ciascuno ad una regione frontaliera. I programmi operativi
congiunti138 sono programmi pluriennali relativi a una o a un gruppo di
frontiere e prevedono azioni pluriennali volte al conseguimento di un insieme
coerente di priorità. In seguito all‟adozione dei programmi congiunti la
Commissione conclude con Paesi partecipanti un accordo di finanziamento. I
programmi congiunti sono di norma gestiti da una Autorità di gestione
congiunta139, eventualmente coadiuvata da un Segretariato tecnico140; le
regioni frontaliere su cui saranno attivati i programmi congiunti sono
stabilite dalla Commissione. Una delle novità interessanti riguarda il fatto
che ai programmi transfrontalieri possono essere associati anche Paesi terzi
non partecipanti al programma che si affacciano su un bacino marino comune in
cui è stato attivato un programma operativo congiunto.
4.3 Le opportunità dello strumento di vicinato e
partenariato per il Mediterraneo: la cooperazione transfrontaliera
Lo Strumento europeo di vicinato e partenariato sancisce un
importante punto di svolta nelle politiche europee di assistenza esterna
introducendo il principio dei benefici comuni e della partecipazione delle
autorità locali attraverso la componente della cooperazione transfrontaliera.
Entrambi questi principi si fondano sul partenariato tra attori interni ed
esterni all‟Unione europea. Ma ancor di più, entrambi implicano il superamento
dei confini. Il riconoscimento del ruolo delle autorità locali prevede,
inoltre, l‟applicazione del principio di sussidiarietà verticale anche nella
politica di assistenza esterna e non solo nella politica interna di sviluppo
regionale. Quanto detto affonda le sue radici nel profondo cambiamento delle
relazioni che da internazionali sono diventate sempre più transnazionali141. Il
fenomeno della cosiddetta “glocalizzazione”142 ha infatti comportato una
revisione del ruolo degli Stati centrali, che non sono più gli unici attori
delle relazioni e delle politiche internazionali. La crescente interdipendenza
tra esterno ed interno e la relativizzazione del confine143, coinvolge direttamente
i territori e le relative autorità locali attraverso il commercio, gli
investimenti, la mobilità delle persone (con particolare riferimento alle
migrazioni) e i flussi di idee e conoscenze. Di conseguenza, gli attori
territoriali e le autorità locali sono sempre più attivi nello scenario
mondiale e operano all‟interno dello Stato, così come nelle relazioni
transnazionali e dell‟economia globale144. Negli ultimi anni si è osservata una
convergenza crescente tra politica estera ed interna nell‟attività delle
autorità locali. Dapprima parallele, la cooperazione decentrata allo sviluppo
(esterna all‟Europa) e la cooperazione territoriale (interna all‟Europa) si
sono progressivamente integrate nell‟area di vicinato e di pre-adesione, grazie
soprattutto alle componenti di cooperazione transfrontaliera e transnazionale
del programma INTERREG145. In un certo senso, a livello di autorità locali si è
superata l‟interdipendenza tra le politiche europee di assistenza esterna e di
sviluppo regionale. La Commissione europea ha attribuito alle regioni e agli
enti locali un‟importanza crescente nella cooperazione, a partire dagli anni
„90 con l‟iniziativa INTERREG, fino ai nuovi interventi di assistenza esterna
dello Strumento europeo di vicinato e partenariato e dello Strumento di
pre-adesione146.
Lo Strumento europeo di vicinato e partenariato rappresenta,
dunque, una innovativa finestra di opportunità per le autorità locali nella
politica di assistenza esterna e dà un grande impulso al ruolo politico delle
regioni. Per la prima volta esse possono partecipare, attraverso la
cooperazione transfrontaliera, alla governance multi-livello dello
sviluppo territoriale nel Mediterraneo147. Inoltre, il Regolamento dello
Strumento europeo di vicinato e partenariato prevede che l‟assistenza
comunitaria possa essere utilizzata a beneficio comune degli Stati membri e dei
Paesi partner, e questo trova un‟importante applicazione proprio con la
cooperazione transfrontaliera e transregionale148. Il principio del beneficio
comune viene infatti esteso alle regioni dei Paesi membri e partner, con un
emendamento del Parlamento Europeo149.
Per la prima volta, attraverso lo strumento europeo di
vicinato e partenariato e quello di pre-adesione, un unico strumento sarà
applicato a entrambi i lati dei confini esterni dell‟Unione europea, a favore
dei territori comunitari come di quelli terzi. I fondi comunitari per lo
sviluppo interno dell‟Unione150 concorreranno così all‟attuazione della
cooperazione transfrontaliera con i Paesi terzi.
A livello politico, il coinvolgimento attivo dei territori
nei processi di programmazione, gestione e realizzazione dei programmi
congiunti di cooperazione transfrontaliera potrebbe avere importanti effetti
sui processi di decentramento e democratizzazione in molti Paesi terzi, in
particolare del Mediterraneo. Il ruolo chiave attribuito dalla PEV a regioni ed
enti locali pone la questione della governance multi-livello, ossia del
coordinamento tra i vari livelli di governo, con i Paesi terzi151. L‟assistenza
comunitaria prevista dal Regolamento ENPI deve essere stabilita in un
partenariato tra la Commissione e i beneficiari, che deve comprendere autorità
nazionali, regionali e locali, partner economici e sociali, la società civile e
altri organismi competenti. La capacità di partecipazione effettiva delle
autorità territoriali dei Paesi terzi dipenderà tuttavia dai diversi sistemi
costituzionali e istituzionali dei Paesi partner, dall‟applicazione del
principio di partenariato e dei principi di sussidiarietà verticale e
orizzontale.
5. Unione per il Mediterrano (2008)
La nascita dell‟idea dell‟Unione Mediterranea trova impulso
nell‟aggravarsi della marginalizzazione del Mediterraneo nell‟economia
mondiale, testimoniata dal fatto che il suo ruolo è diventato periferico per la
diminuzione del contributo dato agli scambi mondiali da parte dei Paesi del sud
e dell‟est del bacino. Anche il calo dei flussi degli investimenti, la mancanza
del deposito di brevetti, l‟irrisorietà dell‟impiego di capitali destinati alla
ricerca/sviluppo e la debolezza degli scambi intraregionali hanno contribuito
ad acuirne la marginalità.
D‟altra parte le politiche comunitarie riguardanti il
Mediterraneo si erano dimostrate incapaci di far fronte alla gravità dei
problemi che già caratterizzavano quest‟area157 e che inevitabilmente si
ripercuotevano sulla stabilità sociale e sui sistemi politici ed economici158.
Fondamentalmente, l‟azione dell‟Unione nel bacino Mediterraneo è rimasta legata
a delle pratiche inadeguate e a delle politiche desuete che avevano già
dimostrato la loro inefficacia (soprattutto nel commercio), tanto che l‟UE non
è riuscita a diventare la forza motrice capace di trainare i “vagoni” mediterranei
allo stesso modo del Giappone in Asia159. Infatti, oltre alla debolezza degli
investimenti diretti esteri europei nel Mediterraneo, le politiche mediterranee
dell‟Unione non sono riuscite ad incoraggiare un vero sistema produttivo
regionale160. Senza dimenticare che, al di fuori delle esportazioni di gas e
petrolio, i Paesi dell‟area hanno un saldo commerciale negativo quasi cronico
con l‟Unione europea.
La mancata integrazione produttiva, oltre ad essere un serio
handicap per i Paesi mediterranei del sud e dell‟est, a causa della loro
incapacità di dare alle produzioni un più alto valore aggiunto ed un più
elevato valore tecnologico, costituisce anche un mancato guadagno per la stessa
Unione161.
In altre parole, ci sono interessi reciproci che il solo commercio
non può soddisfare. Bisogna andare più lontano, promuovendo progetti che
possano condurre all‟integrazione produttiva e ad un vero collegamento tra il
Nord ed il Sud, fondato su degli interessi reciproci e non su un rapporto di
forza, superando i soli aspetti economici162. In questo quadro severo e privo
di sfumature, il Processo di Barcellona non è riuscito ad essere all‟altezza
degli obiettivi inizialmente fissati. Infatti, economicamente esso non ha
ridotto gli scarti di ricchezza, non ha reso maggiormente attrattiva la regione
per gli investimenti diretti esteri e ha beneficiato di un finanziamento
limitato e mal utilizzato, specie nella prima fase del MEDA. Politicamente non
è stato sottoscritto alcun documento di pace e stabilità, in assenza di un
linguaggio comune fra i partner del Nord e del Sud. La partecipazione d‟Israele
al partenariato euro-mediterraneo, insieme ad altri Paesi arabi (considerata
dai responsabili dell‟UE come un‟acquis aggiuntivo), non ha impedito
allo Stato ebraico di continuare la colonizzazione dei territori palestinesi e
arabi. Culturalmente, la relazione dell‟Europa con gli ambienti arabo e turco
ha molto sofferto della stigmatizzazione generalizzata dell‟Islam, soprattutto
dopo l‟11 settembre 2001, e del dibattito identitario europeo, particolarmente
riguardo alle discussioni sul Progetto di Costituzione europea.
Nonostante ciò, il Partenariato Euro-Mediterraneo ha
permesso il risveglio e la partecipazione degli attori della società civile,
suscitato un interesse accademico considerevole, facilitato lo sviluppo di reti
di Istituti (EuroMeSCo e FEMISE163), finanziato in parte un‟Accademia
diplomatica mediterranea a Malta, fatto nascere una grande fondazione culturale
euro-mediterranea, la “Anna Lindt”, permesso la creazione, spesso spontanea, di
centinaia di iniziative di centri di ricerca, di Istituti euro-mediterranei
(per esempio IEMED a Barcellona) o delle Maisons de la Méditerranée
(come quella di Marsiglia). Ciò ha consentito incontri fecondi sia sul piano
umano, che sul piano politico e ha, allo stesso tempo, sensibilizzato l‟Europa
alle problematiche del Mediterraneo.
Inoltre, in maniera ragionevole, non si può accusare la sola
Unione europea dell‟insuccesso e dei fallimenti del partenariato: i Paesi del
Sud hanno spesso trascinato i piedi in materia di riforme e non hanno fatto
nulla di significativo per consentire la promozione dell‟integrazione
sovra-regionale. Certo, c‟è stato l‟accordo di Agadir164, cui partecipano il
Marocco, la Tunisia, l‟Egitto e la Giordania, ma questi quattro Paesi non hanno
delle frontiere comuni e l‟accordo resta velleitario e virtuale.
Analizzando, poi, la Politica di Vicinato, questa risulta
più problematica165 e suscita più questioni rispetto al partenariato
euro-mediterraneo. Anzitutto per una bilateralizzazione eccessiva che mette
l‟integrazione produttiva regionale fuori portata, in secondo luogo, a causa
del blocco di tutti gli orizzonti di adesione e anche per l‟accavallamento
delle altre iniziative in corso166.
Inoltre, l‟UM potrebbe diventare un pendant meridionale
della “Dimensione Nordica”, un‟iniziativa regionale di cooperazione a cavallo
dell‟UE e della Russia167.
Ma gli Stati del sud che hanno sottoscritto tale politica,
sembrano giocare secondo le regole, e tentano di massimizzare i loro benefici,
minimizzando i loro sacrifici, soprattutto sul piano politico. Per i
sostenitori dell‟Unione Mediterranea, la Politica di vicinato è troppo estesa e
riguarda Stati tra loro troppo diversi, che non sono sottoposti agli stessi obblighi
e ai quali, pertanto, non sono richiesti gli stessi sforzi, che non sostengono
le stesse identità, che non seguono necessariamente gli stessi obiettivi e che
non hanno gli stessi orizzonti.
La proposta francese non manca perciò di propositi, dato che
si tratta di agire globalmente per massimizzare i campi di cooperazione,
intorno a degli interessi condivisi, affinché si possano “tracciare le linee di
un futuro comune sostenibile”168. È necessario, quindi, stare a vedere se
l‟Unione Mediterranea, e il numero più esiguo degli Stati che ad essa
partecipano169 (almeno nella proposta iniziale), offre prospettive migliori in
termini di lavoro congiunto, di coerenza, di coordinamento con le altre
iniziative e di impatto settoriale e globale.
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